INDOVINA CHI SVIENE A CENA di PATRIZIA BIRTOLO

Sono bravissima ad accettare inviti a cena. Lo faccio con grazia così collaudata che pochi resistono. Giovanni non ha fatto eccezione. Eccomi qui, avvolta nel caldo abbraccio del soppalco perlinato fino all’altezza del garrese di un levriero afghano. Lo sguardo cade sulla tavola apparecchiata con cura estrema. I calici brillano alla luce di candele artigianali di squisita fattura, nell’aria vibra un sentore di patchouli che inebria i sensi. Il tovagliolo è un capolavoro: piegato come un origami, una creazione così si può chiamare solo giunca d’oriente. Piatti di un grigio elegantissimo come il sotto-tovaglia che arriva a terra, mentre la tovaglia rosa è puntata con piccole cocche artistiche disposte ai lati del tavolo. Al centro, una composizione da far sbiellare Arcimboldo Arcimboldi. Arance, limoni e lime incisi con scarificazioni degne di un totem polinesiano sacro fan da base a sontuose rose di carciofi, in trono tra foglie di carice e aspidistra. Boccioli di ravanelli occhieggiano sfalsando i petali come fantasie optical anni ’70 in un delizioso contrasto di acceso fucsia e lattescente candore, altri fiori composti da più strati di carote smerlate ad arte fanno capolino qua e là, impazienti di mettersi in mostra. I narcisi di cipollotti intagliati a zig zag geometrizzano il centrotavola. Come segnaposto lui ha infilato nel cappottino che riveste la bottiglia – un Gewürztraminer del ‘17 – i fronzuti racemi della Brassica Campestris, varietà Cymosa. Insomma, delle cime di rapa. Sì, il mio nomignolo è Cime di rapa tempestose. Sono una pugliese con un’insana passione per la letteratura inglese. Un brivido mi percorre la schiena: io come segnaposto ho un enorme baccello di fava crudamente infilzato tra i pizzi del grembiulino di un’altra bottiglia rivestita con divisa di foggia muliebre. L’imponente baccello s’alza maestoso e prende tutta la scena. Non sarà elegante quanto la phalenopsis in cui speravo io, certo non passa inosservato. Ammettiamolo: la tavola, tutte le attenzioni e lo studiato allestimento mi mettono in somma agitazione. È come un gigantesco anagramma che termina col punto esclamativo della fava, tutto mira, tende e incanala verso una cosa sola. Quello. Soppeso con cautela le vie d’uscita, ma sembra troppo tardi per qualsiasi escamotage. Dall’impianto in filodiffusione parte una suadente musichina new age. Mugolii di megattere in amore, conosco questo cd. Mi sento braccata. Giovanni è riemerso dalla prolungata eclissi ai fornelli, adesso avanza con lo stesso sguardo predatorio e magnetico della pantera della Duracell. Quella che dura di più. Molto di più. Fra le mani regge un vassoio contenente l’arma letale. Anzi, un tris di primi per un’offensiva perfetta: Bigoli al tartufo nero, Gnocchi fontina e tartufo, Risotto al tartufo bianco alla marchigiana. Per me è la fine.     Con l’ultimo barlume di lucidità mi chiedo: una coincidenza o qualche pseudo amica ha spifferato gli effetti collaterali che mi infligge il tartufo? Dopodiché distanza di sicurezza saltata, ormai ragiono con i feromoni. Giovanni mi osserva meravigliato: “Piccola?? Accomodati dai, ti servo il primo. Aspetta! Aspetta…Ti sposto la sedia.” Si avvicina, scosta la sedia mentre lo guardo con occhi sognanti, il profumo del tartufo è già entrato in circolo. “Va bene qui, Giovanni?” domando docile come un bradipo lobotomizzato. Peccato non essermi messa una gonna, era proprio una serata da tubino con spacco. Mi siedo composta, lo guardo adorante, sbatto le ciglia. Porco mondo, neanche una bretellina da far scivolare dalla spalla! Impugno il cucchiaio. Ecco, lo sapevo. Alla mia destra è già apparsa Aretha. Certa gente parte in quarta e sente farfalle nello stomaco. Altri son trascinati da un vortice di violini tzigani. Io visualizzo Aretha Franklin. Mi guarda allusiva, come a dire: lo sai come va a finire… Difatti… Lì lì per assaporare la prima cucchiaiata comincio a sentire quella musica.   Lookin out on the morning rain (Ah-ooo) I used to feel so uninspired (Ah-ooo)   Oh, Lord! A ogni ah-ooo del coretto sprofondo in un turbine di lussuria e desiderio. Comincio a vedere le stelle più brillarelle del firmamento, un friccico mi percorre la spina dorsale. Scuoto i capelli, ridacchio, mi spazzolo il risotto al tartufo, afferro una ciocca e comincio a giocherellarci. Dal labiale intuisco che Giovanni sta parlando ma è un video senza suono. Vorrei quelle labbra stampate dappertutto come timbri su una raccomandata smarrita in giro per l’Italia: timbri ovunque, sopra sotto davanti dietro, la Regina del Soul mi invita a lasciarmi andare, ah-ooo, sempre più giù… Before the day I met you Life was so unkind But your love the key to my piece of mind   Mi vedo vestita solo della mia modestia e pochi altri accessori: un malizioso cappellino con veletta, due mezze ciliegie candite per nascondere i pirimpolli, una spruzzata di panna montata spray sul lato B a mo’ di coda di leprotto da sigarettaia di club privé equivoco e per perizoma una stringa di liquirizia della Haribò. Dopodiché evvaii, appesa al lampadario ne faccio il mio trapezio, oppure posso usare il bastone che fa da tutore al Potos là nell’angolo come palo per la lap dance… Cause you make me feel You make me feel You make me feel Like a natural woman (woman)   Siamo all’apice del parossismo. Massì, Giovanni, prendimi e andiamo verso l’infinito e oltre… Facciamolo in tutti i modi in tutti i luoghi e in tutti i laghi, andiamo in Finlandia che è la terra dei 1000 laghi, NO, no: ci ho ripensato. Portami in Giappone per un tour completo dei Love Hotels, li voglio provare tutti. Quello costruito come una Rocca medievale, la Nave spaziale e la Tenda nomade. Proviamo anche il Jumbo Jet, la Torre di Pisa, la Piramide e il Castello di Neuschwanstein; poi voglio la Casa Bianca, il Transatlantico britannico, il Mulino a vento coi tulipani di plastica e sì, ma sììì ma certo, anche quello tipo Terme dell’antica Romaaa… Al terzo botto vado in deliquio, rotolo giù dalla sedia come una bambola di stracci, quando è troppo è troppo. L’organismo non è più abituato a certi ritmi e sprofondo nelle tenebre dell’incoscienza trascinandomi dietro piatto, tovaglia e centrotavola con annessi e connessi di agrumi, rape, carciofi, sedani e melanzane. Lo confesso: dopo l’estasi, intendo proprio l’estasi con la O maiuscola, mi piglia un attaccone di narcolessia. Tocco terra e sembro la caricatura della Bella Addormentata che riposa in mezzo alla Valle degli Orti. Prima di crollare riesco a scorgere, in questa discesa a precipizio verso il Nulla, Giovanni esterrefatto con la bottiglia in mano rimasta a mezz’aria. O a mezz’asta? La bottiglia del pregiato Gewürztraminer da sfondamento. Non era meglio un Brunello del ’96? Insomma, il solito bianco all’immancabile sentore di vaniglia, dolce ma non melenso, che stufita. La vaniglia dialoga (ma non è detto che si capiscano) con l’altra componente, l’ananas del borokoro, superiore alla papaja del koukonko, non fatevi ingannare. Vi state chiedendo dove sono ‘sti posti? È chiaro, se è un Gewürz saranno in Trentino. Comunque non ve lo consiglio. Ma no, non il Trentino. Quel vino, intendevo dire. Circola voce che porti una certa sfiga. Lo chiamano “il bianco che ti fa andare in bianco.”

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