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“Cotta”… a puntino! Di Simona Elia
(Incontri gastronomici di uno “Strano Tipo”)
E allora disse “Tardi o no, stasera verrò su al Paese e ceneremo tutti assieme”, quasi avesse saputo di dover assolvere a chissà quale perentorio ordine Karmico. Ristorante con terrazzo, sulla vasta Piana del Sele: era visibile l’intero arco del Golfo di Salerno, fino alla punta estrema della Costiera. Ad Asya sembrava di essere al cinema, la testa direttamente nel maxischermo, con una specie di effetto “grandangolo”, inghiottita dallo spettacolo. Il buio della scarpata che sconfinava negli ampi appezzamenti di terra dei vecchi latifondi a valle, strideva agli occhi della ragazza con la densità di luce prodotta dagli agglomerati urbani del centro abitato. Sulle panchine le famigliole godevano della pacata frescura collinare e, se non fosse stato per qualche “guagliunciell” che sfrecciava di monopattino nelle zona pedonale lo scenario sarebbe stato davvero di una pacatezza soporifera. Quel luogo invitava a fermarsi giusto il tempo della degustazione di prelibatezze, per poi “sbarcare” la notte in mille avventure tra quelle luci minuscole e tremolanti giù a valle. La comitiva scelse un posto a caso e, dalla cornucopia di tutti i possibili numeri, il Destino estrasse per loro il tavolo “47”, numero che li perseguitava ormai da tempo immemorabile. Un forte presagio la scosse e ruminò:“stasera accadrà qualcosa che mi cambierà la vita”, ma subito la distrasse la voce del cameriere informalmente ossequioso. La comitiva optò per una cosetta ecumenica: a centro tavola si fecero recapitare una bella “Mozzarellona di Bufala”, bianchissima, corposa, di quelle succose, con sembianza di melagrana: tonda e “chiattona” con il sensuale “bitorzolotto” a farle da coroncina, insomma “na Reggin”! Tagliarla a spicchi per darne in pasto a tutti fu quasi un sacrilegio, come rovinare un’opera d’arte, ma fecero il sacrificio…Del resto, il “granato” a cui somigliava per forma è da sempre il simbolo tradizionalmente più caro alla popolazione locale. Anticamente dedita al culto di Hera Argiva, protettrice della fecondità- iconicamente rappresentata dall’abbondanza dei chicchi di tale frutto- nei secoli per sincretismo, ha virato verso la devozione alla “Madonna del Granato”, appunto, il cui santuario la protegge benevola dall’altura. O almeno così dicono! Ad ogni modo, in aggiunta a quell’imponente monumento gastronomico, decisero per la “classica”: la spiritosa e fresca “Acqua Sale”, che a centro tavola fa sempre colore e allegria. Risvegliato il palato a gusti della tradizione, si ritrovarono a colloquiare con un magnifico “Fusillo ai Fiori di Zucca” e, per le buone forchette “Calamari mbuttunati”, ma giusto due. Asya no! Ormai alla continua ricerca di sfide e novità fu sedotta da una curvatura/fusion di tradizioni distanti. Volle mettere alla prova il talento creativo del cuoco straniero, che s’era inventato l’ultima diavoleria per attrarre i clienti, ormai sempre più esigenti e “gastrorgasmici”. Il livello di globalizzazione imperante- con la facilitata mescolanza tra popoli ed etnie- ha ormai innegabilmente permeato fino al midollo la nostra essenza. Perfino i piatti tradizionali hanno ormai preso ad essere declinati secondo le cifre identitarie locali. A tavola è come per i fregi e i capitelli delle colonne, come per gli stili di pittura, come per le lingue, quella che una volta era lontananza ora è una vivacissima prossimità e, finanche, mescolanza. È l’era dell’Esperanto del gusto: la tradizione è rivisitata e le identità locali stemperate nel mare magnum del nostro avvicinarci sempre più. Mentre scorreva un po’ annoiata il menù, le papille gustative di Asya d’improvviso avevano preso a saltellare curiose solo a leggere dell’ultimo prodigio culinario che, Vlad, l’ormai famoso nuovo cuoco balcanico, ironicamente aveva chiamato “ ’a zéngara ‘mbriàca”. Nel Cilento questa espressione idiomatica si riferisce a chi si finge stupido (ubriaco) ma di fatto è furbo, sa il fatto suo (vedi la zingara, che oltre al presente si pensa indovini perfino il futuro). Vlad aveva preso una specie di “Pita”, quella tipica delle sue terre e le aveva applicato un innesto. La metamorfosi genetica, sbarcando nella Piana del Sele, si era concretizzata nell’aggiunta alla classica focaccia ripiena di tonno, cipolle caramellate e olive (a chilometro zero), di cicorie selvatiche e formaggio caprino biologico del Cilento affinato nel Passito, il cosiddetto “Ubriaco Arimeo”, prendendo in prestito per il nome l’ingegnosa idea di “ubriacare” il formaggio con vino ischitano, nata in una famosissima azienda casearia di Paestum.“Mmmh e cumm’è ‘bbon sta zéngara ‘mbriàca, Vlad è cosmopolita! ” esplose, Asya, cabarettisticamente ridacchiando e masticando suoni e parole. Si sentì una cosa del tipo…“sta zengara ‘mbriac è …orgasmolettica!”. Era sempre lei, la solita caciarona “ammuina popolo” e battutista. Rideva come una dannata, da zingara ubriaca. Eppure di fatto niente alcolici per Asya: era quella della comitiva che non li reggeva e che si offriva di star sempre alla guida. Le bastò un sorbettino al limone come in Costiera. Andarono via da lì a dir poco satolli. La ragazza scelse l’itinerario senza esitazione. E, vista l’ora, li convinse a stento mettendoci tanta foga quanta ne avrebbe impiegata se avesse saputo di doversi recare ad un importante appuntamento. Forse lo aveva, ma non lo sapeva. Vento in poppa, stereo a palla, in una serata come un’altra, ridanciana e goliardica, si ritrovarono sulla piazzetta del porto di Agropoli con l’idea di fare solo quattro passi e velocemente tornare a casa.Ma il Destino è un meticoloso regista: insegue le persone, contorce le vie, contrae e dilata spazi e tempi, imbastisce tavole e… vicende, costruisce scenari, intreccia vite, sbaracca tutto e tutto compie in una folle e avvincente corsa verso l’ignoto. Agropoli, come ogni borgo marinaro che si rispetti, in inverno, è un po’ “loffio”, per dirla alla Liga: solitario, nostalgico eppure bellissimo, specie al tramonto; la collina pare un “anginetto”-di quelli nostri cilentani -“spalmato” con “cremina” densa di case, “variegata” di forme e colori, a fissare languido il mare, prima di “inzupparcisi” fino all’ultima costruzione, specialmente all’ora dolce del tè. Ma in estate no! E’ tutta un’altra “pietanza”, specie la piazzetta sul porto. Un “fritto misto”, una “paella” di gente proveniente da ogni dove: stretti come sardine, i corpi dei bagnanti quasi a costretti a mettersi a complemento gli uni con gli altri per ottimizzare gli spazi. Le tipe ristrette come “acciughine”, messe a dieta (magari mediterranea), i tipi sempre un po’ “polpi”, sotto tutti i punti di vista…Trovi quelli con l’occhio da “pesce lesso”, quelli che vogliono fare i “manzi”, quelli che se la danno a gambe come “lepri” per la paura di metter su discorso, quelli che cinguettano -e non nel senso di Twitter-, che “beccano” e s’involano, quelli che mostrano la “ciccia”, con l’auto di papi. Insomma ce n’è per tutti i “gusti”. Ogni volta è un “banchetto” fino all’alba, con l’odore delle crêpes lungo la discesa che ti arpiona l’epitelio olfattivo e non lo molla neppure per un secondo. A due passi sul cucuzzolo, come nelle favole, il faro messo di sbilenco e il Castello normanno, che ricorda ancora Luisa, la “Sanfelice”, della Rivoluzione Napoletana, ivi a lungo residente. Ma quella sera i ragazzi, vedevano a malapena uno scorcio di porto, “inghiottiti” dalla folla vorace. D’improvviso si sentirono travolgere da un flusso inarrestabile di gente:una banalissima rissa. Spintoni. Urla. E, si sa, quando la Fortuna o la Sventura vogliono, le cose capitano, eccome. “Ma tu chi sei,Tommaso Paradiso?” esclamò Asya vedendo sopraggiungere un tipo alla sua sinistra. Slanciato. Un sorriso dilagante. Barba lunga, a bandolero, come nella hit del momento. Capelli tirati all’indietro in un codino da hypster. Pelle ambrata. Due occhi che sapevano di vento, di orizzonti, di cose da fare, di idee, di sesso, di buon cibo. Era uno chef. Uno “chef matto”. Il curriculum con le esperienze all’estero. E nel volto il tatuaggio di tutta la vita che Asya avrebbe voluto essere:coraggio, libertà, strafottenza indolente, fascino napoletano, arroganza mista a sensibilità: un intreccio di folli contraddizioni. Aveva una solarità meticciata di ombre, la fierezza dannata di chi la vita se l’è “mangiata a grandi morsi” e ne ha fatto quasi “indigestione”.“E se ti chiedessi di paragonarmi ad un piatto?”, ingiunse intrepida la giovane donna.“Tartare di gamberi”, sentenziò, con verdetto celere e deciso, “alle spezie”, precisò, “perché ti avverto così, speziata e cangiante: la tartare è sempre quella ma ogni volta le puoi dare una veste e una coloritura nuova. Magari tu potresti essere una bella tartare cilentana: voi fate cose ottime da queste parti, usate tante erbe…”.“Come hai indovinato, sei un mago? Sono i miei preferiti!”, esclamò lei, mentre un tuffo nel petto l’aveva già messa KO. Attonita sentiva in pochi istanti la fortezza della sua gabbia di secoli sgretolarsi miseramente. La Muraglia Cinese delle sue difese interiori veniva giù così. Lui sapeva già di marzapane e di zucchero a velo, di fiaba e di Luna Park, di giostre, d’Estate, di Zenzero, di Paprika e di tutte le spezie, di aerei, di voli, di giramondo travestito da chi ti sa far da mangiare e ti nutre qualcosa anche dentro … e sapeva di fragola e vaniglia e di champagne e ostriche e uva e grano e mais e pane, sfornato caldo, e miele e tutto quanto il palato di lei riuscisse a pregustare d’un sol colpo. Asya aveva l’acquolina, Irraggiungibile, diverso da sé. Un desiderio fusionale la sopraffece. Le appariva, come il pezzo mancate del suo puzzle. “Per me tu, invece insalata di riso”, replicò lei, tutta tronfia. Era il piatto della gioia, nel suo immaginario di bambina, cristallizzatosi nella sua mente fino a farsene, da adulta, strenua estimatrice. Sovrabbondante di sapori. Un mix fresco e invitante. Semplice e articolato. Minimale e stuzzicante. Ma il giovane uomo la freddò: “E’ tutt’ e’ piatt’ ca’ ng’ stann’ ngopp a faccia r’a’ terra propje a’ ‘nsalat’e’ ris’. E che sfaccimm’ e’ piatt, ca’ nun m’ ‘o pozz’ manc’ magna’. So’ allergic’ a ‘o rris’!” [T] Riso! Tanto riso! Risero “di gusto”. Entrambi. Così come ridono i bambini, quando il cuore si allaga di allegria senza un vero motivo. “E tu invece m’pari nu chupa-chups, altro che tartare di gamberi, oh!”, E giù sorrisoni smaglianti a solleticarsi l’anima, con le rughette d’espressione ai lati degli occhi: a volte condividere un istante con qualcuno è tempo più che eterno. Un istante di folle “ubriacatura”. Furono l’uno per l’altra “vino buono”, a incendiarsi i respiri, mentre le sovvennero i versi di Alda Merini: “Io sono nata zingara,/non ho posto fisso nel mondo,/ma forse al chiaro di luna/mi fermerò il tuo momento,/quanto basti per darti/un unico bacio d’amore.” Non c’era storia: lo chef l’aveva “cotta… a puntino” e pure avvinazzata. Forse la zingara ubriaca era lei. O forse lo erano entrambi. Che strana la vita! Ci salva e ci frega allo stesso tempo…